a Roma! -- di Paola De Luca

È un testo quasi privato, quello che segue. Non era destinato al colto pubblico, ma alla sola inclita guarnigione, che ne aveva fatto gentile richiesta.


"Davvero torni a casa? Me lo devi raccontare perbene"
"Farò un diarietto. Promesso."

Era il 2010, e dopo 30 anni di esilio Paola De Luca poteva 'rientrare' in Italia. Tornare a casa, rientrare nel paese, sono modi di dire, immaginarî, supposizioni, da trent'anni la casa è altrove, non è un ritorno, non si ricomincia da 'dove eravamo rimasti?'.
Il rito di passaggio dell'uscita dal carcere è conosciuto, e si può capire che molti possa significare tirar giù la saracinesca sulla galera che ci si lascia alle spalle.
Ma quello dall'esilio? L'esilio non esiste, nessuno lo decreta, perché è una pena equiparata alla pena di morte. E l'esilio da un regime democratico, esiste ancora meno, perché è innominabile. I fuggitivi sono criminali comuni, delinquenti ricercati, dicono: anche se la stessa identica cosa la proclamano i regimi autoritari, teocratici, tirannici o dittatoriali.

Piantiamo rose per Paola

 Delle rose, sì, da piantare per lei quando muore: è questo che sarebbe piaciuto a Paola.

Il clip qui sotto è estratto dal film A mezza altezza di Menotti Bucco, uscito nel 2000, la scena qui è il Père Lachaise a Parigi.

(cut!! che in fine già attacca il fisaboarding di Scalzone) Ora mano a zappette e terriccio! E se non ora, quando pianterete delle rose, dedicatele a Paola DeLuca.

Il documentario, semisconosciuto e probabilmente dimenticato da chi lo conosceva, mostra un po' della vita  di cinque italiani in esilio: Luigi Rosati, Cesare Battisti, Oreste Scalzone, Paolo Persichetti e appunto Paola DeLuca. Qui altri quattro estratti per ricordare Paola:

SOTTO FALSO NOME -- di Paola DeLuca

Da un messaggio del 2009: "Ciao. Questa l'avevo sc/critt in francios, poi F.F. la leggio' e l'ha fata radurr da una sua amichett, a mi non mi ha piaciat la traduc (noblesss obblidg) e l'ho rifatt.
Ma è mellio in francios.
Vabbé te la mand.
Baciott,
zia"
E questo è il testo:



SOTTO FALSO NOME

Mi ascolti.
Quel nome l’ho portato per vent’anni. All’inizio, in Africa, mi venivano i brividi ogni volta che qualcuno mi chiamava.
“Marcella!” Non sopportavo il suono di quel nome.
Giulio mi aveva domandato se avrei potuto accettarne un altro.
Mi ricordo, stavamo a colazione, pessimo caffè nelle tazze e sole già opprimente, l’albero delle papaye di fronte a casa esibiva le mammelle verdi e oscene e ogni cosa mi sembrava ostile, non un rumore o un odore m’erano familiari. Ero in sovrimpressione sul paesaggio.
Un altro nome?

Ci ho pensato per un po’ e non ho mai trovato una risposta.
Il fatto è che non avevo scelta.
Quando decisi di scappare, un compagno m’aveva scovato il passaporto “è une simpatizzante del movimento, è d’accordo, la dichiarazione di furto la farà tra sei mesi, così starai tranquilla alle frontiere”
Figurarsi. Un doganiere in Niger aveva studiato a lungo la foto, incollata di fresco, con un timbro fatto a casa che bisognava scaldarlo per dargli un po’ di rilievo, me lo piazzavo sotto il culo durante le traversate dei paesi, mi ricordo ancora del contatto, non era sgradevole.

“Lei ha ventidue anni?” M’aveva chiesto, il doganiere, scrutandomi attentamente. Ne avevo dieci di più, invece, con qualche capello bianco già apparso sulle tempie. Ma bisognava recitare la parte e io la recitai, mostrai un po’ il seno, mi sentii miserabile.
“Sembra più vecchia”, mi mollò quello, sereno, e mi lasciò passare.

Bologna, la pista palestinese fa tappa in Bolivia?

In un articolo del’8 agosto 2020, il quotidiano Il Dubbio presenta quella che definisce ‘una testimonianza’ di Giovanni Arcuri.
Il pezzo non ha suscitato interesse, malgrado -o forse proprio perché- affermasse cose sorprendenti: per dirne una, che il gruppo di Carlos (Ilich Ramirez Sanchez, terrorista venezuelano all’ergastolo in Francia) avesse rapporti con i neonazisti. Il sogno democristiano degli opposti estremismi che si toccano, infine confermato?
Qui proponiamo un fact-checking dell’articolo, che dovreste leggere prima, e qualche considerazione che ne deriva.

Il ‘testimone’
Nell’introduzione, l’autore ricorda che per la strage di Bologna ci sono quattro condanne di membri dei NAR (gruppo neofascista italiano della seconda metà degli anni ’70), che però hanno avuto il sostegno di ‘diversi intellettuali di sinistra’ che ne mettono in dubbio la colpevolezza.
Di seguito, ricorda che per la strage di Bologna “non mancano indizi verso la pista palestinese. In esclusiva diamo spazio a una testimonianza che potrebbe corroborare quest’ipotesi” e introduce il testimone.
Giovanni Arcuri è romano, è stato ‘diversi anni’ in carcere, pena finita nel 2016, conosciuto come attore in un film premiato dei fratelli Taviani, e autore di libri scritti in galera. “Oggi è libero, anche se si è ritrovato nel 2016 accusato nuovamente di traffico di stupefacenti.” Insomma recidivo poco dopo essere scarcerato, ma egli precisa di essere stato assolto in primo grado, “mi hanno solo mantenuto il delitto tentato”, che tradotto significa che il traffico di droga era stato fermato prima che avvenisse.


Ma, dice il giornalista “Va ribadito che parliamo di un passato che non appartiene più a Giovanni Arcuri.” Senz’altro vale la presunzione di innocenza anche per lui, un po’ meno le garanzie del giornalista. Che aveva appena ricordato che l’Arcuri “ebbe un ruolo nell’operazione Watch Tower, opera della Cia inerente al traffico di armi e stupefacenti, il cui scopo era quello di finanziare progetti della lotta anticomunista nei paesi dell’America Latina.”

Sull'uso politico della vittima

Nefasti della memoria
I «fasti del quarantennale», cioè le celebrazioni in ricordo del sequestro di Aldo Moro nel 1978, hanno mostrato il carattere nefasto delle ricostruzioni memorialistiche, che, proprio poiché capaci di bypassare il tempo trascorso e le ricostruzioni storiche, anziché sollevare interrogativi provocano ed alimentano sentimenti.
Interamente nelle mani di politici e giornalisti, nell'assordante silenzio degli storici e nell'assenza integrale degli ex-brigatisti, il discorso pubblico, incentrato sulle vittime del terrorismo, ha raggiunto rapidamente toni da campagna d'odio. Giornalisti di fama si sono lasciati andare ad insulti, scrivendo di voler sputare addosso agli ex-brigatisti, e scatenando così i tanti giustizieri dell'internet, sdoganati nella rincorsa a chi propone le peggiori umiliazioni e punizioni. Perché sembra che quei fatti siano appena avvenuti, ieri o l'altroieri, e l'emergenza sia in corso.
Davanti ad immagini di cadaveri e di sangue, basta gridare quello è l'assassino e non importa più che in quattro decenni il paese sia cambiato, la storia abbia fatto il suo corso, e che gli autori condannati abbiano fatto in tempo a scontare le massime condanne nelle peggiori condizioni possibili.
Tra le rarissime voci critiche, spicca per importanza l'articolo di Ilenia Rossini, dedicato a 'L’indicibilità della critica della vittima': lo prendiamo come punto di partenza per quanto segue, un contributo al dibattito nato inizialmente come commento.

La falsa vittima di via Fani

Un testimone per tutti i misteri
Alessandro Marini (nato nel 1942, professione dichiarata ingegnere) ha avuto un po’ più dei proverbiali “15 minuti di celebrità”: è dal 16 marzo 1978 che viene sistematicamente riproposto come IL testimone del sequestro di Aldo Moro. Era sul posto, e da allora racconta che due brigatisti su una moto Honda blu gli spararono una raffica di mitra, che colpì il suo motorino ma non lui. Tutti i brigatisti processati per quei fatti sono stati condannati per tentato omicidio nei suoi confronti. Nessuno tra i numerosissimi inquirenti (polizia, carabinieri, magistrati, giornalisti, ricercatori, detectives dilettanti, ecc.) si è mai preoccuppato di controllare il punto di partenza delle sue dichiarazioni: cioè il fatto che egli fosse sul posto in motorino, il cui parabrezza diceva colpito e rotto dalla raffica, o almeno da un proiettile di questa, partito dalla moto Honda.

L’analisi che è proposta qui si basa su fotografie di dominio pubblico e di larghissima diffusione, e si concentra sulla posizione del motorino e sul quella dichiarata da Alessandro Marini, ed è seguita dall'ipotesi che egli fosse in un punto diverso.

Come t'intervisto il brigatista

Un nuovo mistero nel caso Moro
Il caso Moro è divenuto ormai quasi per antonomasia un coacervo di 'misteri'. Malgrado i numerosi processi, che hanno condannato tutti i responsabili delle Brigate Rosse a decine di ergastoli, viene sistematicamente presentato come un 'cold case', un caso irrisolto e sul quale va indagato.
I misteri vengono enumerati dagli 'esperti', che, a piacere, ne possono scegliere ed esporre pubblicamente uno secondo le necessità del momento.
Gli esperti sono un insieme di professionisti che, nel corso dei quasi quattro decenni trascorsi dal fatto, si sono profilati come conoscitori del caso, per averne scritto e discusso pubblicamente. Sono magistrati in funzione o in pensione, giornalisti, politici di ogni tendenza che hanno partecipato a Commissioni d'inchiesta o ancora 'consulenti'.
Sotto questa élite, che sul caso ha sviluppato una piccola industria, si trovano gli aspiranti esperti, tra cui spiccano una frazione di vecchi pentiti e dissociati brigatisti -Franceschini, Etro, Morucci, Faranda- che pur vantando conoscenze dirette, possono essere messi a tacere quando dicono cose non conformi al mantenere vivo il mistero del momento.
Del momento, perché il sistema si auto-riproduce; a turno si spara una 'rivelazione' sul caso, un articolo accompagnato da lanci di agenzia cui seguono i commenti dei politici. Di fatto però, quando non si tratta di vere e proprie bufale, si tratta di ri-rivelazioni, affermazioni note e fatte anni addietro, spesso più volte, ciclicamente, che sono riproposte come nuove ed amputate degli elementi che in epoche passate le avevano chiarite o contraddette. Un tale vecchiume che neppure più l'autorità giudiziaria italiana, nota per aprire inchieste con la massima facilità, prende in considerazione.

Passaporto 11333

Otto anni nella CIA

Era intestato a Manuel Aurelio Antonio Hevia Cosculluela, il titolo di viaggio numero 11333, rilasciato dal Ministero degli esteri uruguayano nel 1970.
Il nome del titolare era vero, lui però era cubano. Con una particolarità: lavorava per il servizio segreto statunitense. Era la CIA che l'aveva inviato in missione in Uruguay, dove, nascosto da una attività di copertura, collaborava con le autorità politiche, militari e di polizia. Per questo gli avevano dato il passaporto.
La seconda particolarità, ignorata però da nordamericani ed uruguaiani, era che il cubano agiva come un convinto agente del suo paese. Nella Cuba degli anni '60, fresca di rivoluzione e letteralmente assediata dagli Stati Uniti per i quali l'isola 'comunista' a poche miglia dalle proprie coste era (ed è ancora!) un insopportabile dito nell'occhio, si era lasciato reclutare dai nordamericani.
'Pasaporte 11333 - Ocho años en la CIA' è così divenuto il titolo del libro di memorie col quale lo stesso Hevia Cosculluela narrò in prima persona, una volta ritiratosi sull'isola, la sua esperienza di doppia infiltrazione in Uruguay.
Il libro fu pubblicato nel 1978 a Cuba, dalla Editorial de Ciencias Sociales, La Habana, ed ebbe alcune riedizioni negli anni 80 in Messico ed in Uruguay. Le sole traduzioni conosciute erano destinate al pubblico dei paesi del blocco socialista: in tedesco, pubblicata nella Germania dell'Est (RDT) dalle Edizioni militari (Militärverlag), in russo ed in slovacco.
Un testo quasi irreperibile, che la Pattumiera della storia, dopo lunghe ricerche tra antiquari austro-argentini, si pregia di offrirvi.
Non lo troverete altro che qui:

Christa e Sonja e Mumia e Marco


Un messaggio di Christa Eckes
L'incarcerazione 'educativa' di Christa Eckes, ex militante della Rote Armee Fraktion (RAF) e gravemente malata di cancro, per costringerla a testimoniare in un processo per fatti degli anni '70, è stata revocata dal Tribunale federale tedesco.
Si tratta di una decisione che, sotto il profilo della legalità, è assolutamente ragionevole, tanto che non dovrebbe neppure fare notizia; ma quando si tratta di militanti di sinistra, o ex-tali ma non pentiti, la politica prende il posto della ragione.
Sul caso e sull'arresto coercitivo o Beugehaft s'era riferito qui.
Nella decisione del 19 gennaio 2012  i magistrati hanno ammesso che una persona in chemioterapia non può essere semplicemente sbattuta in cella, poiché "la verità non può essere ricercata a qualsiasi costo, non dunque, nel caso, a costo della seria messa in pericolo della vita di una testimone gravemente malata".
La verità in questione, sia chiaro, è quella giudiziaria: su dettagli del caso Buback (1977), sul quale la stessa Christa all'epoca non poteva sapere proprio nulla, essendo già in galera da anni.
Insomma sono stati ridotti alla ragione, ma pure per questo s'è dovuto battagliare.
(Nella foto, la manifestazione del 14 gennaio a Karlsruhe, sede del Bundesgerichtshof, o BGH, tribunale federale).